Siamo nell'orbita - è proprio il caso di dirlo! - della pura sperimentazione teutonica grazie a quanto ci viene proposto da questo duo strumentale formato da Markus Reuter (chitarra, loops) e Bernhard Wöstheinrich (sintetizzatori, percussioni). Non v'è dubbio, infatti, che i numi ispiratori del progetto si chiamino Tangerine Dream, Edgar Froese, Can e così via; a tali influenze si accompagna poi un minimalismo non banale. Ne risulta un astrattismo sonoro ricco di potere ipnotico. "Harvest Girls", la prima, lunga traccia di Sun Lounge Debris, presenta un liquido sequencer su cui si innestano le morbide evoluzioni della chitarra, la quale non pesca in astrusità fini a se stesse ma si mantiene in linea con una vena lirico-melodica. Dal secondo pezzo in avanti si entra molto più nettamente nell'ambito cosmico tipico dei Tangerine Dream nobili di "Zeit" o "Phaedra", con le loro immote atmosfere plananti. Molto bello l'arcano clima di infinite dimensioni spazio/temporali creato da "In Sable Orbit", e anche altrove si rimane immersi nelle profondità siderali. Le percussioni si affacciano nella conclusiva "Tales of Children in Trees", dove si anticipano i temi che ritroviamo compiutamente espressi nella prima track del mini The Divine Beast (apripista di un secondo CD di prossima uscita). E dunque in "The Cult of: Bibbiboo" si rileva una trama ritmica reminiscente il Klaus Schulze dark-tribale di "Blackdance" e "Timewind", mentre "Thúsgg", con la sua ironia, mi ha fatto ripensare ai Kraftwerk di "Ralf & Florian". Ad ogni modo i Centrozoon non sono un collage del già sentito, giacché la materia viene trattata con disinvoltura e cognizione di causa. L'ascolto di questi dischi potrà soddisfare tanto il fan dell'avantgarde ad oltranza, quanto colui che nella musica ricerca relax ed orecchiabilità, ovvero ciò che oggi è catalogato come new age.

Francesco Fabbri - dicembre 2001

Di questo disco avevamo già avuto un assaggio col mini-CD precedente, ma ora l'ascolto diretto del lavoro completo conferma le rilevanti doti dell'entità Centrozoon. Fin dal sontuoso digipack appare evidente che ogni particolare è quantomai curato, e non poteva essere altrimenti, dato che i 77 minuti di The Cult of: Bibbiboo non intendono nascondere la propria ambiziosità e ricercatezza. Sull'inizio rumoristico-industriale di "The Golden Lamb" la chitarra tesse arabeschi dodecafonici, e le ritmiche schizoidi talora si aprono a rivelare sconfinati paesaggi sonori. Le distorsioni estreme della sei corde, quasi ad imitare un trapano elettrico, sono contrappuntate efficacemente da un aereo sintetizzatore. Notevole la delicata ambient minimale di "Healing the Land", da cui si evince che si può essere virtuosi anche senza sciorinare tremila note al secondo: è appunto il caso del bravo Reuter, che ha gusto da vendere. "All the Time It Is Using Us" suona invece più inquietante, col suo loop ritmico ossessivo, laddove della title-track (comunque in versione differente rispetto al mCD di cui sopra) colpisce l'alternanza tra i frammenti in cui l'energia cova sotto le ceneri e le deflagrazioni guidate dalle compulsive percussioni. Certo è abbastanza curioso notare come il sound dei Centrozoon sia ostico solo in apparenza, venendo ben metabolizzato grazie alla sua capacità di sedurre anche a livello emozionale. "Deliverance/The Divine Beast" coniuga idealmente tecnologia e naturale contemplatività, e si chiude in bellezza con le varianti apportate a "Thúsgg", che diviene una traccia dilatata, eterea ma anticonvenzionale.
Un prezioso punto d'incontro fra Stockhausen e le vorticose esperienze dei Cluster, trovato con grande consapevolezza.

Francesco Fabbri - luglio 2002

Già da tempo sapevamo che i Centrozoon stavano collaborando con Tim Bowness (No-Man). Il primo parto di tale brainstorming è questo mini-CD - comunque lungo quasi mezz'ora - dai contenuti quantomai rimarchevoli e originali. Infatti Bowness non si limita qui a cantare i propri testi, ma contribuisce anche alla scrittura musicale: ne esce un affascinante ibrido elettropop che si stacca con decisione dalla precedente discografia dei Centrozoon. Lo si evince fin dalla raffinata apertura di "Ten Versions of America (trg radio edit)", sicuramente la composizione più accessibile del lotto, che tiene conto sia del Brian Eno "canzonettaro" che di certa new wave primi anni '80. Si rientra in parte nell'alveo della cosmic-experimentation con "Make Me Forget You", in cui il solito, determinante ruolo della chitarra frippiana di Markus Reuter crea un intrigante contrasto con i distesi cantati di Bowness, mentre nei lunghi substrati dei synth di Wöstheinrich in "The Me I Knew" riconosciamo la peculiare ambient firmata Centrozoon: mistica, rilassante, di gran classe. Una certa tensione è per contro celata nella spettrale title-track, dove è particolarmente acceso il (positivo) dualismo fra gli stranianti richiami industriali e gli aerei vocalizzi di Bowness. In chiusura una "Ten Versions of America" differentemente arrangiata, quasi trance ma altresì attratta dall'Alan Parsons più "ardito". Ammalianti: sì, è forse questo l'aggettivo che meglio descrive i nuovi Centrozoon!

Francesco Fabbri - maggio 2003

L'atto secondo della collaborazione fra i Centrozoon e il No-Man Tim Bowness è questo full-length album, che idealmente prosegue il discorso già iniziato col mini-CD The Scent of Crash and Burn. Viene dunque confermata una certa affabilità, che tuttavia non sfocia mai nella vera e propria commercialità; in più, fra i collaboratori, troviamo qui un altro nome noto, ossia quel Pat Mastelotto che conosciamo per i servigi resi in casa King Crimson: del resto, la 'paternità putativa' frippiana aleggia da sempre nel songwriting di Centrozoon. Manco a farlo apposta, l'iniziale, lunga "Bigger Space" è lì a dimostrarlo, grazie alle schizoidi trame chitarristiche di Markus Reuter che si uniscono alle percussioni di Mastelotto, mentre sulle propulsioni aero-spaziali e sui loops elettronici vagamente eighties agisce lo straniante cantato di Bowness. L'anima del disco risiede in effetti nel peculiare contrappunto fra le sue suggestive parti vocali, quasi sussurrate, e il gusto sperimentale (comunque non oltranzista) messo in moto dai compagni: si ascoltino, in proposito, i rifacimenti di "Ten Versions of America" e "Make Me Forget", oppure "Carpet Demon", con la sua ritmica simil-dance e l'andatura robotica à la Kraftwerk. Altrove l'assetto melodico prende nettamente il sopravvento, come nel bel refrain di "Little Boy Smile", pezzo a cavallo fra Tangerine Dream e new wave d'antan; nella misurata orecchiabilità di "Pop Killer"; nelle soffuse evoluzioni di "Skylight": qui Bowness e i synth agiscono spiritualmente all'unisono. Le vecchie inclinazioni ambient non sono peraltro dimenticate, e trovano posto nelle tenui onde rifratte di "Not You" e nelle dolci risacche sintetiche di "To the Other".
Buona l'incisione e la definizione sonora, come da standard teutonico; enigmatiche le foto del booklet: una nave che affonda, una casa pendente, un binario morto... A parte gli oltre nove minuti di "Bigger Space", le altre dodici tracce sono tutte piuttosto concise, e forse anche questo è un segnale che ci rivela l'evoluzione verso la (relativa) 'commestibilità' da parte di Centrozoon. Per scoprire se tale mutamento è da considerarsi irreversibile, non resta che seguire le prossime mosse di Reuter & Wöstheinrich.
Contatti e mp3 gratis:
www.centrozoon.de

Francesco Fabbri - aprile 2005

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